L’orgoglio di credere in se stessi.

Immaginate di essere nella Londra degli anni Ottanta, non era così semplice vivere tra scontri, miseria e voglia di raggiungere qualcosa di migliore. Chi era diverso veniva escluso, molto più che oggi.

Nel film “Pride” (regia di Matthew Warchus, Calamity Films, UK 2014) per certi versi l’atmosfera è quella che si percepisce nel video di “Smalltown Boy”, la canzone dei Bronski Beat del 1984.

Un gruppo di attivisti omosessuali vuole raccogliere denaro per aiutare i minatori in sciopero, contrari alla politica vigente.

Nonostante tra gay e minatori non ci sia nulla in comune, ma anzi, sembra che i due gruppi si pongano agli antipodi, Mark (Ben Schnetzer), figura di spicco tra gli attivisti, propone una sorta di fratellanza e unione per ribellarsi alle continue restrizioni proposte dallo Stato. Si parte così per il Galles, tra gli immensi prati resi verde scuro dal perenne cielo coperto, per cercare il supporto morale e finanziario che nella capitale nessuno aveva voluto offrir loro. Inaspettatamente i ragazzi trovano qui disponibilità, e riescono, anche se non completamente, ad ammorbidire gli animi di un piccolo gruppo di paesani campanilisti, caratterizzati da un’ingenua ed innocente apertura verso chi tutti reputano diversi e pericolosi.

Parallelamente viene raccontata la storia di Joe (George MacKay), un ragazzo timido e impacciato, oppresso dalla famiglia, che grazie ad un gruppo di veri amici trova a poco a poco il suo posto nel mondo.

Il film, pur non essendo molto famoso, si porta a casa un Golden Globe, una Palma d’Oro e un David di Donatello, premi che di certo non lasciano passare inosservata la volontà di raccontare una verità per molti aspetti difficile e scomoda, con una dolcezza e brillantezza non da poco.

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